[Gaudeamus igitur]
L'ego di una blogger non è niente senza un quarto d'ora di celebrità ogni tanto. La scarsa autostima di una scrittrice che non si può definire alle prime armi, ma che quelle armi le deve ancora imbracciare, diventa invece un po' meno scarsa proprio grazie ai quarti d'ora di cui sopra.
Insomma, tutto questo per dire che oggi è una gran bella giornata e che un mio racconto corto meno di 800 battute è stato pubblicato sul Corriere della Sera in edicola oggi - giovedì 29 novembre 2012 - nell'ambito di un servizio sulla brevità nella narrativa scritto da Roberta Scorranese (che ringrazio ancora per avermi contattata!).
La micronarrativa osservata non solo dal mio punto di vista, ma da quello di altri tre autori, con cui sono onorata di dividere questa pagina (per chi volesse, inserto Orologi a pag. 70... ed è pure sul sito, grazie a Paolo che me lo ha segnalato): Tiziano Scarpa, Rossana Carretto e @lapausacaffè.
Qui il testo del racconto.
Tua figlia compie diciotto anni.
Nostra figlia, vuoi dire.
Sì. Volevo dire questo.
Dovremo farle un regalo.
Sì, dovremmo.
Ci hai pensato?
Sì.
A cosa hai pensato?
Un orologio d'oro.
Solo un orologio d'oro, dici?
Sì, certo.
Non ti sembra un po'... come dire...
Nulla di quello che pensi.
Non capisco.
Lo immaginavo.
In che senso, lo immaginavi?
Non sai ascoltare.
Io?
Non mi ascolti da tanto tempo. Non approvi le mie scelte.
Non intendevo questo.
Sei faticosa, a volte.
Io?
Tu.
Se sono faticosa, perché ti affatichi a stare con me?
Perché non ho nessun altro.
Hai te stesso.
Non mi basta.
Hai nostra figlia.
Per ora.
Non cambierai idea?
No. Tu?
Nemmeno.
Hai paura del tempo che passa?
Ho paura di regalare l'oggetto sbagliato.
Non abbiamo più molto in comune.
Già.
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giovedì 29 novembre 2012
lunedì 26 novembre 2012
Una parola che mi piace e perché mi piace
Asola
Questa è la storia di una bambina genovese cresciuta in un paesino di mille abitanti, dove in famiglia e a scuola si apprende una lingua ibrida di italiano e dialetto.
La prima vera educazione alla lingua ibrida e madre è però avvenuta attraverso le commedie di Gilberto Govi. Una delle scene più celebri è quella in cui Govi, sotto gli occhi esterrefatti della moglie (sua moglie anche nella vita), sbaglia ad abbottonarsi il gilet.
Una scena memorabile, tanto che i genitori e i nonni della bambina genovese le hanno insegnato ad abbottonarsi da sola i vestiti, con la raccomandazione "Non fare come Govi, metti gassetta e pomello nell'ordine giusto".
La bambina genovese sapeva benissimo che pomello in italiano significa bottone, ma era altrettanto convinta che gassetta in italiano significasse gassetta.
Quella bambina genovese ero io. Ho scoperto solo alcuni anni più tardi che il buco di stoffa in cui si mette il bottone si chiama asola e che gassetta è una parola in dialetto. Non ricordo quanti anni avessi, Nè il momento preciso in cui è avvenuta questa mia presa di coscienza linguistica. Ricordo però che asola è stata, in un certo senso, la prima parola a cui io abbia prestato veramente attenzione.
(esercizio svolto per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
Questa è la storia di una bambina genovese cresciuta in un paesino di mille abitanti, dove in famiglia e a scuola si apprende una lingua ibrida di italiano e dialetto.
La prima vera educazione alla lingua ibrida e madre è però avvenuta attraverso le commedie di Gilberto Govi. Una delle scene più celebri è quella in cui Govi, sotto gli occhi esterrefatti della moglie (sua moglie anche nella vita), sbaglia ad abbottonarsi il gilet.
Una scena memorabile, tanto che i genitori e i nonni della bambina genovese le hanno insegnato ad abbottonarsi da sola i vestiti, con la raccomandazione "Non fare come Govi, metti gassetta e pomello nell'ordine giusto".
La bambina genovese sapeva benissimo che pomello in italiano significa bottone, ma era altrettanto convinta che gassetta in italiano significasse gassetta.
Quella bambina genovese ero io. Ho scoperto solo alcuni anni più tardi che il buco di stoffa in cui si mette il bottone si chiama asola e che gassetta è una parola in dialetto. Non ricordo quanti anni avessi, Nè il momento preciso in cui è avvenuta questa mia presa di coscienza linguistica. Ricordo però che asola è stata, in un certo senso, la prima parola a cui io abbia prestato veramente attenzione.
(esercizio svolto per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
immagine presa da qui
Epos familiare
Nella soffitta di mia nonna c'è una scatola piena di foglie secche. Quelle foglie hanno quasi cento anni. Questa è la loro storia.
La nonna di mia nonna aveva sei figli. Due di loro sono partiti per il fronte durante la prima guerra mondiale e non si hanno avute loro notizie per due anni. Per un po' hanno combattuto finché, disertori, hanno attraversato mezza Europa dormendo nei boschi e rubando il cibo da alberi e orti, nel tentativo di tornare a casa.
La nonna di mia nonna però non poteva saperlo. Per due anni, tutte le mattine usciva di casa e saliva pregando su per il monte, fino al Santuario intitolato a Sant'Anna. Per due anni, tutte le mattine si chinava, a un certo punto del percorso, raccoglieva una foglia e la portava con sé a casa.
Quando i suoi due figli tornarono, la nonna di mia nonna conservò quelle foglie come una reliquia. Quelle foglie ci sono ancora. Hanno quasi cento anni.
(esercizio svolto per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
La nonna di mia nonna aveva sei figli. Due di loro sono partiti per il fronte durante la prima guerra mondiale e non si hanno avute loro notizie per due anni. Per un po' hanno combattuto finché, disertori, hanno attraversato mezza Europa dormendo nei boschi e rubando il cibo da alberi e orti, nel tentativo di tornare a casa.
La nonna di mia nonna però non poteva saperlo. Per due anni, tutte le mattine usciva di casa e saliva pregando su per il monte, fino al Santuario intitolato a Sant'Anna. Per due anni, tutte le mattine si chinava, a un certo punto del percorso, raccoglieva una foglia e la portava con sé a casa.
Quando i suoi due figli tornarono, la nonna di mia nonna conservò quelle foglie come una reliquia. Quelle foglie ci sono ancora. Hanno quasi cento anni.
(esercizio svolto per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
immagine presa da qui
Racconto una brutta figura
"Raccontare una brutta figura? Come si permette?" dice il mio Inconscio. "Io non faccio brutte figure, io sono perfetta".
Interviene allora il mio Conscio: "Tu non sei perfetta. Nessuno è perfetto. Se davvero vuoi essere perfetta, significa che vuoi essere nessuno".
Replica il mio Inconscio: "Nessuno io? Non ti azzardare, sai?"
Risponde il mio Conscio: "Dai, è facile. Mica è la prima volta che ti chiedono di descrivere una brutta figura. Ricordi quel tema alle elementari? Hai forse lasciato il foglio in bianco?"
Il mio Inconscio sbuffa e alza le spalle: "Irrilevante. E' capitato a tutti di dimenticare i passi nel bel mezzo del primo saggio di danza della propria vita, con i parenti schierati sugli spalti e la mamma che, telecamera alla mano, immortala il momento".
Il mio Conscio scoppia a ridere: "Ah, allora lo ammetti. Allora sbrigati a pensare, perché proprio in questo momento stiamo facendo fare una bruttissima figura a Marta, che invece di preparare il suo compito sta facendo sapere a tutti che tu e io abbiamo dei problemi".
(esercizio svolto per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
immagine presa da qui
Interviene allora il mio Conscio: "Tu non sei perfetta. Nessuno è perfetto. Se davvero vuoi essere perfetta, significa che vuoi essere nessuno".
Replica il mio Inconscio: "Nessuno io? Non ti azzardare, sai?"
Risponde il mio Conscio: "Dai, è facile. Mica è la prima volta che ti chiedono di descrivere una brutta figura. Ricordi quel tema alle elementari? Hai forse lasciato il foglio in bianco?"
Il mio Inconscio sbuffa e alza le spalle: "Irrilevante. E' capitato a tutti di dimenticare i passi nel bel mezzo del primo saggio di danza della propria vita, con i parenti schierati sugli spalti e la mamma che, telecamera alla mano, immortala il momento".
Il mio Conscio scoppia a ridere: "Ah, allora lo ammetti. Allora sbrigati a pensare, perché proprio in questo momento stiamo facendo fare una bruttissima figura a Marta, che invece di preparare il suo compito sta facendo sapere a tutti che tu e io abbiamo dei problemi".
(esercizio svolto per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
immagine presa da qui
Cosa vedo alla finestra, ore 11 di lunedì 19 novembre
Mi è stato chiesto di osservare e descrivere quanto vedo dalla mia finestra alle 11 di lunedì 19 novembre.
C'è però un problema: a quell'ora sono in redazione e lì non ci sono finestre, solo due grandi porte a vetri.
Non solo: non posso osservare e descrivere quanto vedo dalle porte a vetri, per due ragioni. La prima è che le porte a vetri sono completamente tappate dalle insegne, la seconda è che la mia scrivania dà le spalle alle porte a vetri ed è rivolta contro il muro. Pertanto, alle 11 di lunedì 19 novembre, guardo il muro davanti a me.
Ci sono due sugheri con diversi fogli, tenuti appesi da puntine color bianco opaco. Le puntine senza fogli attaccati sono disposte a triangolo scaleno in un sughero e a cuore nell'altro. In basso a destra del secondo sughero, un foglietto di carta velina su cui è disegnata la Lanterna di Genova, colorata di rosso, come fosse il disegno di un bambino. Ci sono poi un calorifero spento e un grosso bidone della RedBull che i miei colleghi usano come frigo. Pareti bianchissime, senza sbavature.
Un muro un po' troppo ordinario, per i miei gusti.
(esercizio svolto durante il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
C'è però un problema: a quell'ora sono in redazione e lì non ci sono finestre, solo due grandi porte a vetri.
Non solo: non posso osservare e descrivere quanto vedo dalle porte a vetri, per due ragioni. La prima è che le porte a vetri sono completamente tappate dalle insegne, la seconda è che la mia scrivania dà le spalle alle porte a vetri ed è rivolta contro il muro. Pertanto, alle 11 di lunedì 19 novembre, guardo il muro davanti a me.
Ci sono due sugheri con diversi fogli, tenuti appesi da puntine color bianco opaco. Le puntine senza fogli attaccati sono disposte a triangolo scaleno in un sughero e a cuore nell'altro. In basso a destra del secondo sughero, un foglietto di carta velina su cui è disegnata la Lanterna di Genova, colorata di rosso, come fosse il disegno di un bambino. Ci sono poi un calorifero spento e un grosso bidone della RedBull che i miei colleghi usano come frigo. Pareti bianchissime, senza sbavature.
Un muro un po' troppo ordinario, per i miei gusti.
(esercizio svolto durante il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
immagine presa da qui
lunedì 19 novembre 2012
Elenco il contenuto del mio portafoglio
Vado a memoria. Abbonamento dell'autobus. Carta d'identità. Soldi. Patente, Codice fiscale. Un sassolino nero. Una foto di mio nonno da giovane. Una coroncina del Rosario. Una finta icona di San Gaio, patrono dell'allegria (finta perché il Santo non esiste). Un plettro. Anzi, no, forse il plettro non c'è più. La tessera della Coop. La tessera di Naturasi. La tessera di Feltrinelli. La tessera della biblioteca. E tutto il resto, che al momento non ricordo.
(esercizio per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
(esercizio per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
immagine presa da qui
Descrivo un membro della mia famiglia in cinque righe
Alcune cose che so di mio nonno. Aveva le orecchie grandi, la voce forte e un solo rene. Il suo bastone era marrone scuro. La sua fede nuziale è oggi, fusa in una palla con quella della nonna, appesa come un ciondolo al collo di mio padre. Parlava dialetto, tifava Genoa e faceva il pesto al mortaio. Aveva fatto la guerra. Gli piaceva ridere. Era fatto così.
(esercizio per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
(esercizio per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
immagine presa da qui
domenica 18 novembre 2012
Descrivo me stessa in cinque righe
La mia prima lettura è stata un cartello con la scritta Attenti al cane. In effetti ho sempre avuto paura dei cani, finché non ne ho avuto uno. Che altro? Rido, piango, scrivo, mangio, dormo. Sono io, insomma.
(esercizio per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
(esercizio per il workshop di scrittura con Paolo Nori a Officina Letteraria)
immagine presa da qui
lunedì 12 novembre 2012
Di cosa parla il mio romanzo?
Ho finito alcuni giorni fa la prima stesura del primo romanzo che sono riuscita a scrivere fino alla fine. Ora inizia la fase due: lettura, riscrittura, tentativi di farne uscire qualcosa di decente.
Riassumere in due parole la trama? Penso che K.T. Tunstall sia stata (inconsapevolmente) in grado di farlo molto meglio di me...
Riassumere in due parole la trama? Penso che K.T. Tunstall sia stata (inconsapevolmente) in grado di farlo molto meglio di me...
domenica 21 ottobre 2012
Una bookblogger su The Incipit
Ci ronzavo intorno da un po', alla fine mi sono decisa: ho rispolverato un vecchio incipit di racconto che tenevo in caldo da mesi e l'ho pubblicato su The Incipit.
Per chi ancora non lo conoscesse, consiglio un giro su questa piattaforma che permette di pubblicare la propria storia in dieci puntate e di farla progredire attraverso il contributo dei lettori. Al termine di ogni episodio viene infatti rivolta una domanda con tre possibili soluzioni: quella che otterrà più voti dai lettori stabilirà la trama dell'episodio successivo.
Inoltre autore e lettori possono interagire, commentare, chiacchierare, il tutto attraverso The Incipit e i vari socialcosi.
Il mio raccontino si chiama Penna e fornello e lo potete leggere su The Incipit.
Mi date una mano a farlo andare avanti? :)
venerdì 3 agosto 2012
Just breathe (Pearl Jam)
C'è una scena nel mio romanzo, verso la fine, in cui ciascuna delle tre protagoniste si isola su un balcone a fissare la notte. Ciascuna nei propri pensieri.
Sono amiche da ventotto giorni. Di lì a due giorni, ciascuna tornerà alla propria vita, alla propria quotidianità.
Quando l'amicizia si nutre di quotidianità, tutto nel bene e nel male si amplifica. Si dividono le giornate ora dopo ora, sotto uno stesso tetto o attraverso il filo di un telefono, e si arriva a sentirsi come una cosa sola, indivisibile. In quei momenti, quando c'è silenzio, sembra quasi di sentire una i respiri dell'altra. Respiri che suona come una musica lenta, cadenzata. E quando il respiro di una diventa più forte, l'altra lo sente e sa che è il momento di esserci. Il momento in cui il bisogno di quotidianità si fa più intenso.
Quello che le mie protagoniste ancora non sanno, è che la vera amicizia sopravvive alla quotidianità. Che quando la quotidianità, per tante ragioni, viene meno, si continua a respirare come prima. Il respiro di una e dell'altra diventa un sottofondo nelle rispettive vite, ma la sensazione di doverci essere non tramonta. E quando ci si ritrova - dopo giorni, settimane, mesi - basta un istante per accorgersi che in tutto quel tempo si è continuato a respirare insieme. Che nessuna tensione, nessuna deviazione nel percorso nella vita, nessuna differenza ha potuto cambiare il ritmo di due persone che respirano insieme.
Ecco, se riuscirò a portare nel mio romanzo questa sensazione che accompagna la mia vita, vorrà dire che ho raggiunto il mio obiettivo.
ps. grazie a Eddie Vedder per aver creato questa canzone.
Sono amiche da ventotto giorni. Di lì a due giorni, ciascuna tornerà alla propria vita, alla propria quotidianità.
Quando l'amicizia si nutre di quotidianità, tutto nel bene e nel male si amplifica. Si dividono le giornate ora dopo ora, sotto uno stesso tetto o attraverso il filo di un telefono, e si arriva a sentirsi come una cosa sola, indivisibile. In quei momenti, quando c'è silenzio, sembra quasi di sentire una i respiri dell'altra. Respiri che suona come una musica lenta, cadenzata. E quando il respiro di una diventa più forte, l'altra lo sente e sa che è il momento di esserci. Il momento in cui il bisogno di quotidianità si fa più intenso.
Quello che le mie protagoniste ancora non sanno, è che la vera amicizia sopravvive alla quotidianità. Che quando la quotidianità, per tante ragioni, viene meno, si continua a respirare come prima. Il respiro di una e dell'altra diventa un sottofondo nelle rispettive vite, ma la sensazione di doverci essere non tramonta. E quando ci si ritrova - dopo giorni, settimane, mesi - basta un istante per accorgersi che in tutto quel tempo si è continuato a respirare insieme. Che nessuna tensione, nessuna deviazione nel percorso nella vita, nessuna differenza ha potuto cambiare il ritmo di due persone che respirano insieme.
Ecco, se riuscirò a portare nel mio romanzo questa sensazione che accompagna la mia vita, vorrà dire che ho raggiunto il mio obiettivo.
ps. grazie a Eddie Vedder per aver creato questa canzone.
venerdì 20 aprile 2012
Officina Letteraria: compagni di viaggio (the end)
[Si è conclusa ieri sera Officina Letteraria. O meglio: si è presa una pausa in attesa che il cammino insieme continui. Perché continuerà, e questo pensiero mi fa stare bene]
Compagni di viaggio
Quando si viaggia è consigliabile partire con un bagaglio leggero, possibilmente con qualche spazio vuoto all'interno, perché capita spesso che tra una pausa-shopping e l'immancabile furto in albergo la valigia del ritorno risulti più piena e più pesante di quella dell'andata.
Con i compagni di viaggio è un po' la stessa cosa: meglio partire leggeri, perché durante il tragitto non si sa mai cosa può accadere.
Prima di partire non ero sicura di fare questo viaggio: l'ho deciso una domenica mattina, mentre aspettavo di salire su un treno. Mai metafora fu più azzeccata. Sono partita con un bagaglio leggerissimo, che durante il cammino si è riempito di frammenti di umanità, frammenti di parole, frammenti di storie. A ogni tappa del viaggio la mia penna, i miei occhi, le mie orecchie e la mia voce aggiungevano qualcosa al mio bagaglio. Ho continuato così, tappa dopo tappa, a trascinare la mia valigia sempre più piena.
Finché a un certo punto mi si è avvicinata una donna: bionda, sui trent'anni, lineamenti dell'Est. Mi ha guardato i capelli e in un italiano sgrammaticato mi ha detto che per venti euro me li poteva tagliare. Stavo per risponderle che ho già il mio parrucchiere di fiducia, ma di colpo mi è andata via la voce. E ora siamo qui, a camminare una accanto all'altra sotto la pioggia, ma io sono diventata muta. Lei però è paziente. Continua a parlare, aspetta i miei tempi. Il viaggio è ancora lungo, prima o poi le risponderò.
mercoledì 18 aprile 2012
Diaz (side B)
Non ero mai stata alla Diaz. Ne ho sempre sentito parlare, ho visto tante volte le immagini in tv o sui giornali, ma non c'ero mai stata veramente. Curioso, tanto più che vivo a Genova e neppure troppo lontana da lì. Ieri pomeriggio sono salita sul 36 e non sono scesa in piazza Tommaseo come faccio di solito, per aspettare l'altro autobus che mi porta verso casa. Ho proseguito fino al capolinea. Sono scesa, ho camminato a ritroso, mi sono fermata un momento, non troppo, ho camminato ancora.
Ci sono film che non sono solo film. Ti rimane dentro qualcosa, a volte. Qualcosa che non merita di starsene rannicchiato nella mia testa, in attesa che altri pensieri e altri qualcosa lo seppelliscano. Qualcosa che deve essere fissato qui, come una promessa.
Prometto che un giorno ne scriverò. Scriverò di una ragazza che a quei tempi era una bambina, e come tutti i bambini assorbe e strizza via le brutte notizie come una spugna con il sapone. Una ragazza che un giorno va al cinema e vive quel curioso fenomeno che in termini scientifici si chiama discovery of hot water: una realtà ovvia per il mondo, ai suoi occhi diventa qualcosa che fino a un istante prima non era mai esistito. Ha appena compiuto diciotto anni, si sente grande. Grande abbastanza da fare un viaggio di centinia di chilometri, da sola, per arrivare là. Prende un biglietto del treno senza sapere la destinazione: ci sono così tante stazioni, a Genova. Esce dalla stazione ferroviaria e sale sull'autobus che le hanno indicato, il 36. Poco prima del capolinea, l'autobus imbocca quella via. Nel film sembrava molto più grande, la strada. Infatti il film lo hanno girato in Romania. L'autobus si ferma in piazza Merani e lei scende. Ha già visto tutto quello che c'era da vedere, costeggiandolo seduta sull'autobus. Percorre a ritroso quella stessa via e si ferma davanti a quel cancello. Chiude gli occhi e riascolta quel rumore di cingolato, il ferro, le prime persone che gridano. Li riapre e vede solo una scuola. Una scuola assolutamente normale, il cortile è vuoto a quell'ora, c'è silenzio. Quella ragazza si domanda come sia possibile che quel posto sia così normale. Che lì intorno ci siano case e negozi assolutamente normali. Che non ci sia nulla di non normale, nell'aria. Che tutte le persone che sono in strada stiano camminando in modo assolutamente normale. Che in tutti questi anni gli autisti dell'autobus guidano avanti e indietro lì davanti come se fosse un luogo assolutamente normale.
Quella ragazza arriva fino in fondo a via Cesare Battisti. Si gira un'ultima volta per guardare lo spigolo di quel posto, poi svolta in via Trieste e arriva fin qui.
Ed è qui che capisce. Il paradiso a una manciata di metri dall'inferno. Essere lì o in qualunque altro posto del mondo non rende la storia migliore o peggiore di quello che è stata. Alla fine della storia che un giorno scriverò, lei che si sentiva grande abbastanza per partire da sola in questo lungo viaggio, capisce di essere ancora quella bambina che guardava i telegiornali come le spugne guardano il sapone. Perché solo un bambino può domandarsi come sia possibile che il mondo sia andato avanti nonostante tutto quel male. Un grande lo sa. Non sa spiegare come, né perché, ma il mondo va avanti.
Ci sono film che non sono solo film. Ti rimane dentro qualcosa, a volte. Qualcosa che non merita di starsene rannicchiato nella mia testa, in attesa che altri pensieri e altri qualcosa lo seppelliscano. Qualcosa che deve essere fissato qui, come una promessa.
Prometto che un giorno ne scriverò. Scriverò di una ragazza che a quei tempi era una bambina, e come tutti i bambini assorbe e strizza via le brutte notizie come una spugna con il sapone. Una ragazza che un giorno va al cinema e vive quel curioso fenomeno che in termini scientifici si chiama discovery of hot water: una realtà ovvia per il mondo, ai suoi occhi diventa qualcosa che fino a un istante prima non era mai esistito. Ha appena compiuto diciotto anni, si sente grande. Grande abbastanza da fare un viaggio di centinia di chilometri, da sola, per arrivare là. Prende un biglietto del treno senza sapere la destinazione: ci sono così tante stazioni, a Genova. Esce dalla stazione ferroviaria e sale sull'autobus che le hanno indicato, il 36. Poco prima del capolinea, l'autobus imbocca quella via. Nel film sembrava molto più grande, la strada. Infatti il film lo hanno girato in Romania. L'autobus si ferma in piazza Merani e lei scende. Ha già visto tutto quello che c'era da vedere, costeggiandolo seduta sull'autobus. Percorre a ritroso quella stessa via e si ferma davanti a quel cancello. Chiude gli occhi e riascolta quel rumore di cingolato, il ferro, le prime persone che gridano. Li riapre e vede solo una scuola. Una scuola assolutamente normale, il cortile è vuoto a quell'ora, c'è silenzio. Quella ragazza si domanda come sia possibile che quel posto sia così normale. Che lì intorno ci siano case e negozi assolutamente normali. Che non ci sia nulla di non normale, nell'aria. Che tutte le persone che sono in strada stiano camminando in modo assolutamente normale. Che in tutti questi anni gli autisti dell'autobus guidano avanti e indietro lì davanti come se fosse un luogo assolutamente normale.
Quella ragazza arriva fino in fondo a via Cesare Battisti. Si gira un'ultima volta per guardare lo spigolo di quel posto, poi svolta in via Trieste e arriva fin qui.
Ed è qui che capisce. Il paradiso a una manciata di metri dall'inferno. Essere lì o in qualunque altro posto del mondo non rende la storia migliore o peggiore di quello che è stata. Alla fine della storia che un giorno scriverò, lei che si sentiva grande abbastanza per partire da sola in questo lungo viaggio, capisce di essere ancora quella bambina che guardava i telegiornali come le spugne guardano il sapone. Perché solo un bambino può domandarsi come sia possibile che il mondo sia andato avanti nonostante tutto quel male. Un grande lo sa. Non sa spiegare come, né perché, ma il mondo va avanti.
giovedì 29 marzo 2012
Officina letteraria #8 e racconto
(questo, riveduto e corretto)
L'uomo senza musica
Uno – La ragazza del
caffè
Sono le undici e
quarantacinque. Tra pochi minuti Bernie inizierà la quotidiana
operazione frittura, che trasformerà la cucina in un tripudio di
olio esausto e pancetta, e la sottoscritta in una fabbrica di odori
impronunciabili. Mancano due ore alla fine del mio turno e ho servito
duecentosessantacinque caffè: se arrivo a trecento concluderò la
mattinata battendo ogni record personale.
Ho una cosa da fare, nel
pomeriggio. La figlia dell'uomo senza musica mi ha chiesto di andare
nella pasticceria qui di fronte e ordinare una grande torta con il
cioccolato e la glassa, da decorare con la scritta Auguri papà.
Lei lavora a Manhattan, non ha tempo. Undici ore al giorno chiusa in
quel grattacielo, a guadagnare in un mese quello che io prendo in un
anno. Non farei a cambio con lei per nulla al mondo.
La cosa strana è che non
so nemmeno il suo nome. L'ho vista una sola volta di persona,
una domenica. A un certo punto lui è andato in bagno e lei mi si è
avvicinata.
“Scusa, tu lavori qui
tutti i giorni?”
“Certo”
“Posso chiederti un
favore?”
“Certo”
Mi passa un biglietto di
cartoncino giallastro.
“Questo è il mio
numero di cellulare. Mi mandi un sms tutti i giorni, quando lui
arriva? Voglio essere sicura che sia davvero qui e non chissà dove.
Sono così preoccupata per lui, passa tutte le notti in giro con
l'apparecchio spento. Se passasse una macchina contromano o cose del
genere , non se ne accorgerebbe”.
Annuisco.
“Da quanto tempo è
così?”
Lei si volta. Lui ci
mette sempre tanto, in bagno. Ci sono le riviste sportive.
“Tre anni. L'infezione
gli è venuta mentre mia mamma era già in ospedale. Non ha detto
niente a nessuno. Secondo me era già così, quando è morta. Ora
gira sempre con l'apparecchio spento, con tutto quello che mi è
costato. Gli avrò detto mille volte di venire a stare da me, ma lui
niente. Da quando è andato in pensione non ha più voluto saperne di Wtc e cose del genere”.
Faccio sì con la testa.
Io non ci vivrei mai, a Wtc e cose del genere.
Così ieri la figlia
dell'uomo senza musica mi ha mandato un sms e mi ha chiesto se posso
prendergli una torta. “Ti rimborso la prima volta che passò di
lì”, mi ha scritto. Fra due giorni è il compleanno dell'uomo
senza musica, ecco il perché della torta. Compie gli anni il dodici.
Quest'anno il dodici cade di mercoledì, magari la figlia si prende
un giorno di ferie. Se deve dare una festa, può farlo solo qui. Lo
sa che lui festeggerebbe solo qui.
Due – L'uomo senza
musica
Il mio mondo è fatto di
immagini e colori. Sono in grado di vedere a occhio nudo particolari
che sfuggirebbero a chiunque altro: un'ombra di fuliggine su un
colletto di camicia, una foglia caduta su un marciapiede in una
strada completamente priva di alberi, la camminata nervosa di mia
figlia al di là della finestra del suo ufficio gemello al piano
gemello della sua torre gemella. Quest'ultima cosa almeno fino alla
pensione, finché ho vissuto anche io a Manhattan.
Sono in grado di
camminare da solo in una strada poco illuminata, a notte fonda: la mattina arrivo a casa stanco e
non mi sveglio mai prima di mezzogiorno. Quando mia figlia mi manda
un sms durante la sua pausa pranzo, io mi sto vestendo per andare a
fare colazione al bar.
Scelgo sempre lo stesso,
a due passi dal portone. La ragazza del caffè ha le lentiggini e un
brillantino al naso sempre intonato al colore della maglietta. Quando
sorride porgendomi il caffè lascia sempre intravedere quell'incisivo
scheggiato: lo immagino come il nostro piccolo segreto, scommetto che
nessun altro se n'è mai accorto.
Oggi però non sorride. Anzi, quando sono entrato ha preso un'aria imbronciata, quasi
spenta. Ha abbassato la testa e si è messa a trafficare con una
spugnetta gialla. C'è qualcosa di diverso: non ho bisogno di
accendere il mio apparecchio per sentire che nessuno sta parlando.
Sono tutti con lo sguardo incollato al grosso televisore appeso al
muro. Pare che abbia preso fuoco un grattacielo. Solo adesso mi viene
in mente che mia figlia non mi ha ancora mandato il solito primo sms
della giornata. Mi decido e accendo l'apparecchio.
“Cosa è successo?”,
chiedo alla ragazza del caffè.
Tre – Le macerie
Macerie, nome comune di
cosa femminile plurale. Indeclinabile. Mai sentita la parola
“maceria”. È anche un termine difficile da definire. Tutti
sappiamo cosa sono, ma raffigurarle nella mente è un'altra cosa.
Domanda a un bambino di disegnare delle macerie e avrai davanti a te
solo tante sfumature di fumo e fuoco, con qualche palazzo rotto.
Anche qui c'è un palazzo rotto. Anzi due. Ci sono anche il fumo e il
fuoco. Due torri alte che per ore hanno danzato nel fumo e nel fuoco,
accasciandosi lentamente al ritmo del vento. Plié, pirouette,
inchino, giù il sipario. È qui che arrivano le macerie.
Su queste macerie il sole
è tramontato e poi è sorto di nuovo. Il tempo va avanti come se non
ci fossero macerie. Come se le torri fossero ancora al loro posto, a
fare ombra alla strada. Invece a fare ombra è solo la nuvola grigia
di fumo.
Le macerie sono un
insieme di tutto e di niente. Gli ingredienti sono gli stessi di
un posto normale: i muri, i mobili, gli oggetti, le persone. Solo che
sono tutti accatastati nel niente. Sono diventati trucioli. Anche i
rumori ci sono tutti, ma scontrandosi tra loro generano uno strano
silenzio.
Sono senza musica, le
macerie. È come se l'apparecchio acustico che regola i suoni del
mondo si fosse spento. Una pallina di gomma rosa rotola sul
marciapiede. Un bambino biondo corre e quasi la
raccoglie, ma una mano di donna lo afferra per il polso e lo trascina
via. Uomini con la divisa nera e gialla e uno strano cappello corrono
dentro e fuori. Le macerie hanno tante porte d'ingresso. Fuori
rimangono le teste piegate in avanti, le mani sugli occhi, la stoffa
umida sulle palpebre e sulle guance, la bandierina a stelle e strisce
fra le mani, la fuliggine sulle spalle. E poi le telecamere.
Sono dappertutto. Persone vestite eleganti e senza fuliggine sulle
spalle, che tengono in mano un grosso microfono e parlano. Parlano.
Parlano. Guardano in camera. Nessun suono esce dalla loro bocca.
C'è un odore curioso,
nell'aria. Le macerie odorano di forno a legna. In questa città
nessuno ha il forno a legna. Vanno tutti nei fast food e mangiano
hamburger scaldati al microonde o fritti nell'olio. O entrambe le
cose. C'è anche odore di olio fritto, nell'aria. Forse qualcuno di
loro stava facendo colazione. C'è sempre troppo olio nel cibo, anche
a colazione. Quello che manca è l'odore del caffè. Non era ancora
l'ora del caffè, quando sono arrivate le macerie.
[photo credit: 123rf.com]
giovedì 22 marzo 2012
A new home has come
Di mio nonno ricordo soprattutto il pennellino da barba nell'armadietto del bagno. Quando d'estate veniva in paese, se lo portava dietro e lo metteva su una mensola. Sempre lo stesso pennellino. Non ricordo se l'ho mai visto farsi la barba. Probabilmente sì, perché questo feticismo mentale del pennellino non saprei spiegarlo altrimenti. Fatto sta che è uno dei ricordi più vivi che ho di lui. Più del bastone, più del caffè, più dell'ultima volta che l'ho visto, più di tutto il resto.
Mio nonno non c'è più da undici anni. Ho pianto prima che morisse, quando ho capito che sarebbe stato inevitabile. Da allora il mio legame con lui è fatto di una vecchia foto nel portafogli e una nella mia camera, una Messa di suffragio a Natale e qualche visita al cimitero ogni tanto.
Mi fa uno strano effetto pensare che fra pochi mesi andrò a vivere nella casa che era stata la sua. Dopo un periodo lungo e travagliato, è tornata alla nostra famiglia. Lunedì mattina io e mio papà siamo andati a vederla: non ci entravamo da undici anni. Quel luogo era nulla più di un insieme di flash nella mia testa: il portone, il numero dell'interno (il 19), il lungo corridoio, una foto in bianco e nero all'ingresso, gli armadi a muro, la dispensa in fondo, la poltrona della sala su cui era seduto l'ultima volta che l'ho visto, il pomeriggio di Pasqua, quattro giorni prima che se ne andasse. Marassi, i miei piedi che ritrovano sottoterra le radici da cui sono nata. Molti angoli li avevo rimossi. Ho camminato in cerca di ricordi, e appena entrata in bagno ho subito aperto l'armadietto alla ricerca del pennellino.
Era ancora lì.
A new home has come :-)
Mio nonno non c'è più da undici anni. Ho pianto prima che morisse, quando ho capito che sarebbe stato inevitabile. Da allora il mio legame con lui è fatto di una vecchia foto nel portafogli e una nella mia camera, una Messa di suffragio a Natale e qualche visita al cimitero ogni tanto.
Mi fa uno strano effetto pensare che fra pochi mesi andrò a vivere nella casa che era stata la sua. Dopo un periodo lungo e travagliato, è tornata alla nostra famiglia. Lunedì mattina io e mio papà siamo andati a vederla: non ci entravamo da undici anni. Quel luogo era nulla più di un insieme di flash nella mia testa: il portone, il numero dell'interno (il 19), il lungo corridoio, una foto in bianco e nero all'ingresso, gli armadi a muro, la dispensa in fondo, la poltrona della sala su cui era seduto l'ultima volta che l'ho visto, il pomeriggio di Pasqua, quattro giorni prima che se ne andasse. Marassi, i miei piedi che ritrovano sottoterra le radici da cui sono nata. Molti angoli li avevo rimossi. Ho camminato in cerca di ricordi, e appena entrata in bagno ho subito aperto l'armadietto alla ricerca del pennellino.
Era ancora lì.
A new home has come :-)
lunedì 19 marzo 2012
Officina letteraria #7 e raccontino: tre parole
[Dovevamo scegliere tre parole che rappresentano la nostra vita. Sceglierle di getto, senza pensare. Le mie parole sono: Miele, mare, blog. Nella foto: Miele quando aveva pochi mesi]
A Miele non piace il
mare. Non c'è voluto molto per capirlo: il sole gli dà fastidio, la
sabbia bollente sotto le zampe lo irrita, gli altri cani non vogliono
giocare con lui, l'acqua è troppo salata e le onde gli entrano nel
naso. Non riesco a leggere, il sole e la sabbia bollente danno
fastidio anche a me. L'unica cosa che mi dà pace è l'odore del
sale. Mi alzo e vado sul bagnasciuga. Lo guardo mentre corre verso di
me prima che l'acqua lo raggiunga e lo travolga, poi saltare come un
razzo verso il mare quando l'onda si ritrae, infine tornare indietro
quando fa la sua ricomparsa. Anche se è piccolo ha una voce potente,
quel posto così nuovo non lo fa stare zitto. La gente lo guarda,
sono un po' imbarazzata ma non potrei fare nulla per cambiare la
situazione. Vorrei portarlo via, ma si è deciso che staremo almeno
fino al tramonto. Non che la serata in quell'agriturismo deserto - e
pieno di altri cani con poca voglia di giocare – sia tanto meglio.
Cinque ore in macchina chiuso in una gabbietta, per arrivarci. Alla
prima sosta in autogrill non riuscivamo a tenerlo fermo, tutti quei
rumori di macchine lo spaventavano. Aveva solo otto mesi, la prima
volta che lo abbiamo portato in vacanza con noi. Io non dovrei essere
qui: ho ventidue anni, alla mia età è raro che si vada ancora in
vacanza con i genitori, ma non avrei troppo da fare restando in
paese. Una delle mie valigie contiene solo libri: ne leggo uno al
giorno. Quello di oggi è La fabbrica dei corpi
di Patricia Cornwell. Al nostro ritorno dovrò iniziare a
scrivere la tesi. Con il senno di poi, avrei potuto portare le prime
cose da studiare anche qui.
Prima di Miele avevo
paura dei cani. Un trauma infantile mai risolto, la cockerina che i
miei avevano preso appena sposati era gelosa di me. Diventò
aggressiva, era malata da tempo. Si chiamava Carlotta. Non ho alcun
ricordo di lei. Vent'anni e un altro figlio dopo, ai miei è tornata
la voglia di un cane. Me lo dissero. Risposi che avrei preferito
aprire un rettilario. Una domenica pomeriggio uscii, e al mio ritorno
c'era Miele. Era rannicchiato sotto il calorifero, mia mamma gli
aveva dato un colpo con un giornale arrotolato perché aveva fatto la
pipì in casa. Era grande come la mia mano. C'è voluto del tempo, ma
Miele mi ha insegnato a non avere paura di lui. Né degli altri cani.
Mi erano rimaste altre paure, per esempio quella di restare a casa da
sola se avessi deciso di non andare in vacanza con i miei. Oppure
quella di laurearmi troppo presto, non trovare un lavoro e passare il
mio tempo ad annoiarmi.
Ero lontana anni luce
dall'aprire un blog.
venerdì 16 marzo 2012
Officina letteraria #7 e Olive Kitteridge
[Esercizio: prendere un personaggio che amiamo e scrivere usando la sua voce. Io ho scelto lei]
Alcuni mesi fa hanno aperto un nuovo supermercato. Si percorre in pochi minuti, in paese non esistono spazi grandi abbastanza per contenere un centro commerciale, né aree vergini da inondare di cemento per costruirne uno partendo da zero. Per fortuna, pensò Olive Kitteridge. Per tutta la vita aveva fatto la spesa all'emporio di Joe, che tutte le notti partiva alle tre con il suo furgoncino e andava fino a Boston a prendere frutta e verdura di stagione, in tempo per tornare e aprire puntuale alle otto. Olive Kitteridge passava da lui tutti i martedì e comprava un sacchetto di caramelle, una per ciascuno dei suoi allievi.
Alcuni mesi fa hanno aperto un nuovo supermercato. Si percorre in pochi minuti, in paese non esistono spazi grandi abbastanza per contenere un centro commerciale, né aree vergini da inondare di cemento per costruirne uno partendo da zero. Per fortuna, pensò Olive Kitteridge. Per tutta la vita aveva fatto la spesa all'emporio di Joe, che tutte le notti partiva alle tre con il suo furgoncino e andava fino a Boston a prendere frutta e verdura di stagione, in tempo per tornare e aprire puntuale alle otto. Olive Kitteridge passava da lui tutti i martedì e comprava un sacchetto di caramelle, una per ciascuno dei suoi allievi.
Olive Kitteridge fu molto triste
quando Joe andò in pensione e nessuno rilevò l'emporio. Lo disse anche a suo
figlio, in una delle rare telefonate da New York: “Mamma devi essere al passo
con i tempi, nessuno compra più negli empori ormai. Posti come quello si
trovano solo vicino alle stazioni dei treni o in qualche strada in mezzo al
deserto, dove non c'è un'anima per chilometri. Noi facciamo la spesa al centro
commerciale tutti i sabati e ci troviamo benissimo”.
Suo figlio non era più lo stesso,
da quando aveva sposato quella donna. Olive Kitteridge pensò che forse quella
donna non sapeva nemmeno scriverla, la parola emporio. Lo disse a Henry,
che come ogni giorno la fissava nella sua immobilità: se avesse potuto parlare,
le avrebbe detto che era ingiusta e che Christopher aveva tutto il diritto di
fare la spesa come meglio credeva. “Lo so - disse Olive Kitteridge al marito. -
Però non posso farci nulla se i centri commerciali sono brutti”.
(qui le puntate precedenti di Officina letteraria...)
(qui le puntate precedenti di Officina letteraria...)
lunedì 12 marzo 2012
Officina letteraria #6 e raccontino: Io nelle mie braghe
Io nelle mie braghe
Anche questa settimana è arrivato
martedì. Questa volta è piovoso, e come un pirla sono uscito senza ombrello.
Iniziamo bene. La pioggia è un elemento interessante per spiegare i miei
martedì: è grigia, fastidiosa, ti appiccica addosso e non te la levi più. Il
martedì è giornata di consegne: alle sette e mezza il furgone parcheggia in
doppia fila davanti al negozio e scarica la nuova merce fresca di sartoria. Se
ci sono i vigili, Claudio riparte subito e arrivederci a martedì prossimo. Se
non ci sono, lo accompagno a prendere il caffè.
Il mio nome è Roberto. Un nome
come ce ne sono tanti, forse con qualche erre di troppo. Un nome che non dice
niente a nessuno, così come la mia faccia. Tuttavia, basta indossare la divisa
con impresso il marchio della multinazionale che cinque anni fa mi ha assunto,
e la mia identità si trasforma. Sulla mia carta d’identità c’è scritto: responsabile di negozio. Di fatto sono
l’apostolo di un marchio, che porta la buona novella a discepoli pronti a
immolare tutto il loro denaro pur di avere quello stesso marchio sulla pelle.
Tutti i martedì Claudio mi ripete
la stessa domanda: chi te lo fa fare? Tu non sei come loro, non centri nulla
con quelle persone spocchiose e piene di soldi che vengono a comprare qui. Sei
in gamba, potresti dare il meglio di te in un posto meno opprimente, magari
aprire un negozio tuo. Conosco delle ragazze che fanno roba fantastica, uno
stile artigianale che fa molta più figura di certe tenute da meringa che vendi
qui. Davvero non hai mai pensato di cambiare lavoro?
Claudio me lo chiede tutti i
martedì. Io tutti i martedì gli rispondo la stessa cosa: ci sto pensando.
Mollare tutto e rimettersi in gioco alla mia età richiede una bella dose di
coraggio. E poi diciamocela tutta, fare il sacerdote del gusto mi diverte. Io
qui non vendo vestiti: pratico la circonvenzione d’incapace. Come altro si
potrebbe definire una persona che alla domanda “Che bel vestito, di chi è?” invece
di dare la risposta più logica – “È mio” – annulla la propria identità per
diventare umile portatore sano dell’opera di talento altrui. È la moda il vero
oppio dei popoli. Chi me lo fa fare è la figlia della mia prima cliente: diciott’anni,
lentiggini, una taglia quarantasei strizzata in una quarantaquattro dalle mani
della madre, fissata con la quarantadue. La spremeva in ogni vestito che le
capitava a tiro, starnazzando sui posti a sedere al ballo delle debuttanti, il
figlio del Giorgio vicino alla Mariaelena e così via. Quella ragazza mi
guardava atterrita, mi supplicava con gli occhi di farla smettere. Era un
martedì. Presi la signora sottobraccio e la ubriacai della mia convinzione che
quel tubino azzurro appena arrivato le sarebbe stato un amore. Ci azzeccai.
Finì che la signora comprò tubino, scarpe e borsetta, e alla figlia niente.
Mentre uscivano la ragazza si voltò e mi disse Grazie muovendo le labbra.
Ecco chi me lo fa fare: tutte le
diciottenni ricche loro malgrado, a cui posso ritardare il destino di diventare
come le loro madri. E il sapere almeno il potere, tutte le sere, di svestirmi
del gessato con marchio annesso e tornare nelle mie braghe. Tornare a essere
solo Roberto. Almeno fino a martedì prossimo.
venerdì 2 marzo 2012
Officina letteraria #5 e raccontino
Il mio mondo è fatto di immagini e
colori. Sono in grado di vedere a occhio nudo particolari che
sfuggirebbero a chiunque altro: un'ombra di fuliggine su un colletto
di camicia, una foglia caduta su un marciapiede in una strada
completamente priva di alberi, la camminata nervosa di mia figlia al
di là della finestra del suo ufficio gemello al piano gemello della
sua torre gemella. Quest'ultima cosa almeno fino alla pensione,
finché ho vissuto anche io a Manhattan.
Sono in grado di camminare da solo in
una strada poco illuminata, a notte fonda: mi piace così tanto farlo
che la mattina arrivo a casa stanco e non mi sveglio mai prima di
mezzogiorno. Quando mia figlia mi manda un sms durante la sua pausa
pranzo, io mi sto vestendo per andare a fare colazione al bar.
Scelgo sempre lo stesso, a due passi
dal portone. La ragazza che fa i caffè ha le lentiggini e un
brillantino al naso sempre intonato al colore della maglietta. Quando
sorride porgendomi il caffè lascia sempre intravedere quell'incisivo
scheggiato: lo immagino come il nostro piccolo segreto, scommetto che
nessun altro se n'è mai accorto.
Oggi però non sorride. Anzi, quando
sono entrato ha preso un'aria imbronciata, quasi spenta. Ha abbassato
la testa e si è messa a trafficare con una spugnetta gialla. C'è
qualcosa di diverso: non ho bisogno di accendere il mio apparecchio
per sentire che nessuno sta parlando. Sono tutti con lo sguardo
incollato al grosso televisore appeso al muro. Pare che abbia preso
fuoco un grattacielo. Solo adesso mi viene in mente che mia figlia
non mi ha ancora mandato il solito primo sms della giornata. Mi
decido e accendo l'apparecchio. “Cosa è successo?”, chiedo alla
ragazza del caffè.
(qui le puntate precedenti di Officina letteraria...)
(qui le puntate precedenti di Officina letteraria...)
lunedì 27 febbraio 2012
Officina letteraria #4 e raccontino
Sono un deficiente. Ho passato l'intero
anno scolastico a fare pressione su Marta perché si impegnasse di
più nello studio, a prometterle che se non avesse avuto nemmeno una
rimandatura l'avrei portata in Spagna durante l'estate. Mia sorella
voleva farmi un monumento quando ha visto la pagella, in tutti quegli
anni fra lei e Marta era stata una lotta continua. Come facevo a
dirle che per colpa di quel maledetto Totocalcio potevo permettermi
al massimo una settimana in un due stelle a Riva Trigoso?
Così ho deciso. Come regalo di
promozione ho dato a Marta la mia copia di Sulla strada di
Kerouac e le ho detto: “Leggi e impara. Si parte per l'avventura”.
L'ho convinta a stare al gioco e a raccontare a sua madre che avremmo
viaggiato in aereo e alloggiato in un bed and breakfast nel pieno
centro di Madrid. Chissà se ci arriveremo mai, a Madrid. Se sapesse
la verità ci ucciderebbe entrambi.
Comunque sia, siamo
pronti. Domani mattina si parte.
Si va in Spagna in
autostop.
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