lunedì 4 ottobre 2010

Lidia Ravera e l'importanza di essere zingara

E' stato bello esserci. Lidia Ravera presenta il suo libro a Palazzo Ducale, uno degli incontri del ciclo Mediterranea.

Stromboli è il titolo del libro e l'isola in cui vive per gran parte dell'anno. Non è la sua terra di origine, e a quanto racconta gli abitanti del luogo non perdono occasione per farglielo notare. Eppure si sente più a casa lì che in ogni altro luogo del mondo.

La mia collega Carolina Venturini legge Chocolat e per definire Vienne usa la parola zingara. Da quando ho letto il post ho riflettuto molto su questa parola, ho cercato di capire se questo vocabolo può sposarsi in qualche modo con la mia identità.

Non ho ancora trovato una risposta, ma una riflessione media bene queste due premesse. Lidia Ravera ha lasciato Torino a 18 anni, ossia appena ha legalmente potuto farlo. Non ha lasciato solo una città, ma una mentalità borghese, padana ante litteram in cui non si riconosce. Non una fuga, ma un approdo a ciò che è per lei casa. Vive nel Sud per riscattarsi dal senso di colpa di ciò che gli immigrati del Sud hanno subito a Torino: appartamenti in affitto ma non ai meridionali, file dei banchi a scuola differenziate a seconda della professione dei genitori e della provenienza geografica. Lei, figlia di ingegnere, era in prima fila.

Essere zingari è trovare ovunque le proprie radici, lasciare un germoglio di sé in ogni angolo di terra che si tocca. Vago e viaggio, torno sempre nello stesso posto perché non sono economicamente indipendente, ma ho un bisogno enorme di radici. Le metto nelle librerie, in alcuni angoli del centro storico di Genova, sul lungomare di Camogli e Lavagna, a Cerenova e Bologna, in piazza dell'Anfiteatro a Lucca, ma sono radici effimere e che ancora non si sono radicate.

Vivo nell'unico posto in cui non ho messo radici. Ho capito che lascerò lì il mio germoglio solo quando la mia pianta potrà crescere altrove.

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