Non ero mai stata alla Diaz. Ne ho sempre sentito parlare, ho visto tante volte le immagini in tv o sui giornali, ma non c'ero mai stata veramente. Curioso, tanto più che vivo a Genova e neppure troppo lontana da lì. Ieri pomeriggio sono salita sul 36 e non sono scesa in piazza Tommaseo come faccio di solito, per aspettare l'altro autobus che mi porta verso casa. Ho proseguito fino al capolinea. Sono scesa, ho camminato a ritroso, mi sono fermata un momento, non troppo, ho camminato ancora.
Ci sono film che non sono solo film. Ti rimane dentro qualcosa, a volte. Qualcosa che non merita di starsene rannicchiato nella mia testa, in attesa che altri pensieri e altri qualcosa lo seppelliscano. Qualcosa che deve essere fissato qui, come una promessa.
Prometto che un giorno ne scriverò. Scriverò di una ragazza che a quei tempi era una bambina, e come tutti i bambini assorbe e strizza via le brutte notizie come una spugna con il sapone. Una ragazza che un giorno va al cinema e vive quel curioso fenomeno che in termini scientifici si chiama discovery of hot water: una realtà ovvia per il mondo, ai suoi occhi diventa qualcosa che fino a un istante prima non era mai esistito. Ha appena compiuto diciotto anni, si sente grande. Grande abbastanza da fare un viaggio di centinia di chilometri, da sola, per arrivare là. Prende un biglietto del treno senza sapere la destinazione: ci sono così tante stazioni, a Genova. Esce dalla stazione ferroviaria e sale sull'autobus che le hanno indicato, il 36. Poco prima del capolinea, l'autobus imbocca quella via. Nel film sembrava molto più grande, la strada. Infatti il film lo hanno girato in Romania. L'autobus si ferma in piazza Merani e lei scende. Ha già visto tutto quello che c'era da vedere, costeggiandolo seduta sull'autobus. Percorre a ritroso quella stessa via e si ferma davanti a quel cancello. Chiude gli occhi e riascolta quel rumore di cingolato, il ferro, le prime persone che gridano. Li riapre e vede solo una scuola. Una scuola assolutamente normale, il cortile è vuoto a quell'ora, c'è silenzio. Quella ragazza si domanda come sia possibile che quel posto sia così normale. Che lì intorno ci siano case e negozi assolutamente normali. Che non ci sia nulla di non normale, nell'aria. Che tutte le persone che sono in strada stiano camminando in modo assolutamente normale. Che in tutti questi anni gli autisti dell'autobus guidano avanti e indietro lì davanti come se fosse un luogo assolutamente normale.
Quella ragazza arriva fino in fondo a via Cesare Battisti. Si gira un'ultima volta per guardare lo spigolo di quel posto, poi svolta in via Trieste e arriva fin qui.
Ed è qui che capisce. Il paradiso a una manciata di metri dall'inferno. Essere lì o in qualunque altro posto del mondo non rende la storia migliore o peggiore di quello che è stata. Alla fine della storia che un giorno scriverò, lei che si sentiva grande abbastanza per partire da sola in questo lungo viaggio, capisce di essere ancora quella bambina che guardava i telegiornali come le spugne guardano il sapone. Perché solo un bambino può domandarsi come sia possibile che il mondo sia andato avanti nonostante tutto quel male. Un grande lo sa. Non sa spiegare come, né perché, ma il mondo va avanti.
3 commenti:
È proprio questa apparente normalità l'aspetto che più sconvolge di questi luoghi.
E.
Parole bellissime. Grazie.
Grazie a voi.
Posta un commento