Carla e Francesca erano figlie dello stesso padre e della stessa madre. Erano nate nello stesso ospedale, avevano dormito nella stessa culla ed erano e cresciute nella stessa casa. Portavano lo stesso cognome e avevano lo stesso taglio degli occhi.
Sorelle, il mondo le chiamava. Imparentate, si definivano loro. Il loro legame biologico si esauriva in ciò che costituiva lo spartiacque più profondo della razza umana.
Questo.
Se a Carla qualcuno diceva "Che bel vestito! Di chi è?", lei pronta ribatteva con il nome dello stilista di turno, trovato in saldo per pura fortuna proprio nel negozio sotto casa. Non "Dove lo hai comprato?". La domanda era proprio "Di chi è?".
Se qualcuno rivolgeva a Francesca la stessa domanda, lei rispondeva "E' mio".
Un qualunque capo di abbigliamento acquistato da Carla costava quanto dieci comprati da Francesca. A differenziarle però non era la disponibilità economica: Carla era impiegata in un'azienda di import export, Francesca assistente di poltrona da un dentista. I loro stipendi erano quasi identici.
A dividerle era la percezione di sé. La percezione delle cose. La percezione del possesso.
Per Carla niente era suo: lei era solo uno strumento per esporre al mondo le creazioni dei grandi artisti della moda, le ultime tendenze, ciò che usava. I complimenti che riceveva dalla gente erano di fatto un tributo allo stile e all'eleganza. Francesca metteva se stessa al centro: la sua personalità, i suoi interessi, i suoi difetti. I vestiti erano un semplice viatico per sentirsi bella e per non esporre il suo corpo alla pubblica piazza. Uno stilista li aveva disegnati, ma erano suoi.
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