lunedì 26 novembre 2012

Cronaca di quattro giorni sensati

Lo confesso: fino a un anno fa non avevo mai letto nulla di Paolo Nori. Più precisamente, fino a quando Emilia e Claudia mi hanno fatto conoscere l'incipit di La meravigliosa utilità del filo a piombo, che parla del fatto che per scrivere bisogna prima trovare le proprie braghe, un concetto analogo a quello con cui Bukowski dice che per scrivere bisogna prima trovare la propria sedia.

Così ho letto per intero La meravigliosa utilità del filo a piombo, poi ho letto Grandi ustionati, poi ho iniziato a seguire il suo blog (se "blog" si può chiamare), infine ho letto quello che forse è uno dei suoi primi racconti, al concorso letterario Ricercare del 1999 (segnalatomi da Laura, che ha partecipato a sua volta a quel concorso, e a quello stesso concorso hanno partecipato anche il mio co-datore di lavoro Fabrizio Venerandi e anche un'autrice di Quintadicopertina, Francesca Genti... insomma, tanti pezzi della mia vita tutti nello stesso concorso letterario).

Tornando a Paolo Nori, l'ho conosciuto. Ma non come le fan conoscono il loro idolo, a suon di autografi, lacrime e capelli che si strappano. L'ho conosciuto piuttosto come una persona conosce un'altra persona. Quando conosco una persona che fino a quel momento non conoscevo, di solito sfodero le mie armi peggiori: occhi bassi, mani che tremano, voce che balbetta. L'ho fatto anche in questa occasione, ogni tanto: come direbbe Elena, mi sono rinchiozzolita.

Nei quattro giorni con lui ho ascoltato, ho scritto, ho letto balbettando, restando sempre un passo indietro a me stessa. Ho cercato il silenzio, ho dormito sola, ho camminato nel freddo. Ho pensato a Ilaria, Giulia, Elena, Paolo e Andrea, a quanto sono fortunata. A quanto siamo fortunati. Ho letto due libri che parlano della vita e della morte (Sulla felicità a oltranza di Ugo Cornia e L'anno del pensiero magico di Joan Didion). Ho pensato a quanto fosse meravigliosamente retrò l'umiltà di Paolo Nori, che dice "Grazie" ogni volta che ognuno di noi leggeva o diceva qualcosa (ed era un "Grazie" vero, mica detto così tanto per dire, quei "Grazie" che di questi tempi non usano più). Ho sostato nello "spazio caffè" che Emilia e Claudia hanno allestito a Officina e mi sono sentita a casa. Ho guardato contro un muro, ho pensato al mio portafoglio, ho ricordato quando da piccola ignoravo l'esistenza della parola asola. Ho capito che se non avessi letto quell'Attenti al cane quando avrei dovuto essere troppo piccola per leggere, non sarei andata a scuola a cinque anni; non avrei avuto un'infanzia difficile e un'adolescenza di merda; non avrei capito che Gerardo ci aveva visto giusto, quando disse che a suo tempo aveva rischiato di fare la mia stessa fine, ma un medico sconsigliò ai suoi di mandarlo a scuola prima del tempo, se non volevano che crescesse come un disadattato; non avrei ascoltato le parole di David Foster Wallace ai giovani disadattati, che mi hanno fatto sentire orgogliosa di essere cresciuta disadattata, se questo ha reso possibile che io oggi viva sapendo che l'acqua è acqua. Anche se il mio inconscio rimuove le brutte figure. Anche se con il passato e le radici ancora non mi sono riconciliata del tutto. Anche se non so se sono o sarò mai una scrittrice. Per il momento scrivo, e mi va bene così.

ps. la foto è tratta dal libro uscito domenica 25 novembre 
insieme al Sole 24 Ore, qui un estratto.

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