Avete mai guardato un talent show statunitense? Nei mesi scorsi ho seguito le ultime puntate della versione USA di X-Factor, e subito mi ha colpito una cosa: il conduttore non usava mai la parola "televoto", come si usa in Italia, ma diceva sempre "il voto del pubblico americano"; e quando un concorrente si salvava dall'eliminazione, diceva "ringrazio il pubblico americano".
C'è anche un altro programma tv made in USA che ogni tanto sbircio: si chiama Extreme Makeover Home Edition. Funziona così: una famiglia che vive in condizioni di indigenza ma che si prodiga molto per la sua comunità - che sia il paese, la parrocchia, un centro di volontariato e via discorrendo - viene "premiata" per il suo impegno con una casa da sogno realizzata in sette giorni dal team di costruttori del programma. Conditio sine qua non per essere concorrenti è essere persone che hanno fatto molto per la comunità. La comunità americana, anche se qui non viene detto esplicitamente.
Cosa centra tutto questo con Philip Roth?
Qualcosa centra, secondo me. Pastorale americana (Einaudi) è il secondo romanzo che ho letto di questo autore - il primo è stato La macchia umana. In entrambi ho percepito non solo una bella storia - a volte un po' lenta e prolissa, ma pur sempre una bella storia - ma anche e soprattutto quell'americanità che mi fa dare un senso a (1) se un conduttore di reality e talent nostrani dicesse "i voti del pubblico italiano" sarebbe ridicolo (2) che un conduttore statunitense dica "i voti del pubblico americano" sia perfettamente logico.
Ecco, penso che Philip Roth meriti di essere letto da chi non capisce come mai una nazione che ha meno di trecento anni abbia più senso di patria di tutto il resto del mondo messo insieme. Da chi non capisce perché il fatto che Clinton abbia mentito sulla sua fedeltà coniugale abbia così scandalizzato i suoi elettori (La macchia umana). Da chi non capisce cosa ci sia di diverso tra Seymour Levov e il padre di una qualunque brigatista italiana (Pastorale americana).
Philip Roth non dà una vera e propria spiegazione, almeno non nel senso didattico del termine. Leggendo i suoi romanzi, attraverso gli occhi del suo alter ego Nathan Zuckerman, si arriva però a capirlo. E a domandarci, chissà, se noi italiani avessimo un centesimo di quel senso di patria le cose sarebbero potute andare diversamente.
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