Io nelle mie braghe
Anche questa settimana è arrivato
martedì. Questa volta è piovoso, e come un pirla sono uscito senza ombrello.
Iniziamo bene. La pioggia è un elemento interessante per spiegare i miei
martedì: è grigia, fastidiosa, ti appiccica addosso e non te la levi più. Il
martedì è giornata di consegne: alle sette e mezza il furgone parcheggia in
doppia fila davanti al negozio e scarica la nuova merce fresca di sartoria. Se
ci sono i vigili, Claudio riparte subito e arrivederci a martedì prossimo. Se
non ci sono, lo accompagno a prendere il caffè.
Il mio nome è Roberto. Un nome
come ce ne sono tanti, forse con qualche erre di troppo. Un nome che non dice
niente a nessuno, così come la mia faccia. Tuttavia, basta indossare la divisa
con impresso il marchio della multinazionale che cinque anni fa mi ha assunto,
e la mia identità si trasforma. Sulla mia carta d’identità c’è scritto: responsabile di negozio. Di fatto sono
l’apostolo di un marchio, che porta la buona novella a discepoli pronti a
immolare tutto il loro denaro pur di avere quello stesso marchio sulla pelle.
Tutti i martedì Claudio mi ripete
la stessa domanda: chi te lo fa fare? Tu non sei come loro, non centri nulla
con quelle persone spocchiose e piene di soldi che vengono a comprare qui. Sei
in gamba, potresti dare il meglio di te in un posto meno opprimente, magari
aprire un negozio tuo. Conosco delle ragazze che fanno roba fantastica, uno
stile artigianale che fa molta più figura di certe tenute da meringa che vendi
qui. Davvero non hai mai pensato di cambiare lavoro?
Claudio me lo chiede tutti i
martedì. Io tutti i martedì gli rispondo la stessa cosa: ci sto pensando.
Mollare tutto e rimettersi in gioco alla mia età richiede una bella dose di
coraggio. E poi diciamocela tutta, fare il sacerdote del gusto mi diverte. Io
qui non vendo vestiti: pratico la circonvenzione d’incapace. Come altro si
potrebbe definire una persona che alla domanda “Che bel vestito, di chi è?” invece
di dare la risposta più logica – “È mio” – annulla la propria identità per
diventare umile portatore sano dell’opera di talento altrui. È la moda il vero
oppio dei popoli. Chi me lo fa fare è la figlia della mia prima cliente: diciott’anni,
lentiggini, una taglia quarantasei strizzata in una quarantaquattro dalle mani
della madre, fissata con la quarantadue. La spremeva in ogni vestito che le
capitava a tiro, starnazzando sui posti a sedere al ballo delle debuttanti, il
figlio del Giorgio vicino alla Mariaelena e così via. Quella ragazza mi
guardava atterrita, mi supplicava con gli occhi di farla smettere. Era un
martedì. Presi la signora sottobraccio e la ubriacai della mia convinzione che
quel tubino azzurro appena arrivato le sarebbe stato un amore. Ci azzeccai.
Finì che la signora comprò tubino, scarpe e borsetta, e alla figlia niente.
Mentre uscivano la ragazza si voltò e mi disse Grazie muovendo le labbra.
Ecco chi me lo fa fare: tutte le
diciottenni ricche loro malgrado, a cui posso ritardare il destino di diventare
come le loro madri. E il sapere almeno il potere, tutte le sere, di svestirmi
del gessato con marchio annesso e tornare nelle mie braghe. Tornare a essere
solo Roberto. Almeno fino a martedì prossimo.
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